Uno tra gli avvenimenti più significativi della storia italiana del dopoguerra è stato l’attentato a Palmiro Togliatti nel 1948 che, per i suoi sviluppi e la sua gravità, avrebbe potuto scatenare una vera e propria guerra civile. Il 14 luglio 1948, intorno alle ore 11,30, Antonio Pallante, un giovane studente universitario di 25 anni, della facoltà di Giurisprudenza, esplose contro Togliatti a distanza ravvicinata tre colpi di pistola “Smith and Wesson” calibro 38, (comprata tre giorni prima da un armaiolo per 3500 lire) dei quali tre arrivarono a segno alla nuca e alla schiena, mentre una terza sfiorò la testa del leader comunista. Ricoverato d’urgenza, Togliatti fu operato con successo dal chirurgo Pietro Valdoni.
Togliatti stava uscendo da Montecitorio in compagnia di Nilde Iotti (giovane membro del Pci eletta alla Costituente, con la quale aveva intrecciato una relazione nel 1946, quando lei aveva 26 anni). Nell’immediato dopoguerra, Palmiro Togliatti era stato eletto all’Assemblea Costituente e successivamente deputato fin dalla prima legislatura. Antonio Pallante, un giovane iscritto al blocco liberale qualunquista, si era sempre proclamato psicologicamente terrorizzato dagli effetti che la politica filo-sovietica del “Migliore” (come ormai Togliatti cominciava ad esser soprannominato ironicamente dai suoi avversari) avrebbe potuto avere sul Paese.
Poche ore dopo il ferimento si verificarono gravissimi incidenti in diverse località e città italiane, fra le quali Roma, La Spezia, Abbadia San Salvatore e, nel corso di violentissime manifestazioni di protesta, si registrarono disordini con alcuni morti a Napoli, Genova, Livorno e Taranto. Genova reagì con maggiore tempestività, sia per la forte presenza comunista fra la sua popolazione, sia perché a molti non era sfuggito il ricordo sentimentale di un Togliatti genovese (anche se emigrato subito dopo la nascita in Sardegna e poi vissuto a Torino ed in gran parte in Russia). Gli operai della FIAT di Torino sequestrarono nel suo ufficio l’amministratore delegato Vittorio Valletta. Buona parte dei telefoni pubblici smisero di funzionare e si bloccò la circolazione ferroviaria. Il democristiano Mario Scelba, ministro dell’Interno, fortemente preoccupato per la situazione dell’ordine pubblico i tutta Italia, impartì urgenti disposizioni ai vari prefetti per vietare ogni forma di manifestazione, quando l’intero paese sembrava ormai sull’orlo di una guerra civile vera e propria. Nelle ore in cui si attendeva l’esito dell’intervento chirurgico, si diffusero le più diverse voci sullo stato di salute di Togliatti e, tra le tante, anche la notizia della morte improvvisa del segretario comunista. Il clima politico del paese era caldissimo: soltanto due mesi prima, il 18 aprile 1948, le prime elezioni della storia della repubblica avevano sancito la vittoria della Democrazia Cristiana sul fronte delle sinistre (Partito Comunista e Partito Socialista).
Il bilancio, nella sola giornata del 14 luglio, fu di 14 morti, tra cui quattro agenti di Pubblica Sicurezza, e centinaia di feriti. Nei due giorni successivi all’attentato, si contarono altri sedici morti e circa seicento feriti. Il Paese tornò alla normalità solamente quando l’intervento chirurgico riuscì a salvare la vita di Togliatti. Fu proprio il dirigente del Partito Comunista Italiano ad imporre ai membri più importanti della direzione del PCI, Secchia e Longo, di sedare gli animi e fermare la rivolta. La possibile insurrezione di massa dei militanti comunisti si arrestò davanti all’ordine di Togliatti. Ma secondo buona parte della stampa e dell’opinione pubblica contribuì a moderare gli animi anche l’inaspettata vittoria di Gino Bartali al Tour de France.
Come in molte città italiane anche a Napoli era stata organizzata nella centrale piazza Dante, una imponente manifestazione di protesta, alla presenza di migliaia di persone. Un affollato comizio davanti alla Camera del Lavoro, in via Costantinopoli, si svolse regolarmente nel pomeriggio grazie anche alla perfetta collaborazione tra il Prefetto e i dirigenti sindacali per evitare incidenti. Subito dopo alcune centinaia di giovani si portarono in piazza Dante, radunandosi nel centro, urlando e imprecando. Alcuni avevano raccolto dei sassi dal cantiere vicino dove erano iniziati i lavori per la nuova pavimentazione. Due camionette dei carabinieri si avvicinarono alla folla, un ufficiale si alzò dal sedile e, senza nemmeno scendere, parlò ai dimostranti, invitandoli alla calma, a manifestare senza violenza, e ribadendo che se tutti fossero stati al loro posto, non sarebbe successo niente. Le camionette dei carabinieri si ritirarono tra gli applausi dei giovani e anche la folla ai lati della piazza batteva le mani. La tensione sembrava sciogliersi. Ma improvvisamente da tre strade diverse arrivarono le jeep e i reparti della Celere, facendosi largo tra la folla, che senza preavviso fu caricata. Gli agenti erano anch’essi giovanissimi, in media tra i venti anni. Poi furono esplosi i primi spari. La folla scappò in varie direzioni e sul selciato di piazza Dante rimasero distesi due ragazzi di ventisei anni, entrambi iscritti al Pci, Giovanni Quinto (nato a Pisticci, in provincia di Matera) e l’operaio Angelo Fischietti. Più o meno gravemente rimasero ferite una ventina di persone. A sera, in piazza Dante dominava una gigantografia di Togliatti, candele accese, un quaderno per raccogliere firme, una scatola da scarpe con un buco e la scritta a matita “Sottoscrizione per le famiglie dei Caduti” per raccogliere denaro.
Giovanni Quinto era nato a Pisticci alle ore 10,10 del 4 luglio 1922, nella casa di via Garibaldi 25 da Antonio Vincenzo Quinto, agricoltore, e da Teresa Delfino, casalinga. In assenza del sindaco Antonio Pelazzi, la sua nascita fu registrata davanti all’assessore delegato e ufficiale dello Stato Civile Domenico Giovanni Viggiani dalla levatrice Virginia Tartarini, alla presenza dei testimoni Antonia Lombardi (contadina) e Grazia Lalinga (contadina).
Si da giovanissimo, Giovanni Quinto aveva cominciato a frequentare la Camera del Lavoro e la sezione comunista del suo paese nativo, seguendo l’esempio del padre. Durante il fascismo fu tra gli oppositori più tenaci ed irriducibili del regime, tanto da essere tenuto in osservazione dalle autorità di polizia. Il suo idolo e il modello da imitare era Umberto Elia Terracini, futuro membro della Costituente, di cui conosceva il pensiero ed i programmi. Quando seppe che Terracini nel 1941 era stato deportato nella Colonia Confinaria della vicina Bosco salice, si propose di incontrarlo e conoscerlo di persona ma i familiari frenarono questo suo desiderio, peraltro molto pericoloso. I confinati erano infatti inavvicinabili e nessun esterno poteva entrare in quello che ormai era diventato un campo di concentramento per antifascisti.
Caduto il fascismo si interessò ai problemi della terra e delle lotte contadine. Dopo aver frequentato l’Istituto Tecnico di Melfi, si era iscritto alla Facoltà di Ingegneria Navale del Politecnico di Napoli. La sua famiglia fece moltissimi sacrifici per mantenerlo all’università ma il giovane prometteva bene, si sentiva portato per gli studi tecnici e dava molte soddisfazioni.
A Napoli, nei momenti liberi dallo studio, frequentava attivamente la sezione del Pci di zona Porto e spesso faceva ritorno al suo paese con mezzi di fortuna per dare il suo contributo alla causa in cui credeva fermamente. Per non pesare molto sulla famiglia aveva trovato qualche occupazione saltuaria presso bar e trattorie, cercando di recuperare di notte le ore perdute. Una vita fatta di sacrifici, umiliazioni e privazioni. Nonostante questo Giovanni era perfettamente in regola con gli esami e gli mancava poco alla laurea, avendo già iniziato a redigere la tesi.
I suoi amici e colleghi lo ricordano come un giovane dotato di vivace intelligenza e grande volontà, tanto da risultare il primo del suo corso di studi. Anche la sua preparazione politica era completa e convinta, tanto che il suo nome era stato segnalato a Togliatti dai dirigenti comunisti napoletani per far parte del suo ufficio di segreteria.
Dopo la sua tragica morte e le polemiche che ne seguirono circa il comportamento dei celerini, la sua salma fu trasportata a Pisticci e vegliata da un picchetto di suoi compagni di fede nella sezione del Pci, situata nella centrale piazza Umberto I, visitata e onorata da numerosissimi amici e concittadini. Per la celebrazione dei funerali sorsero vivaci contrasti con il clero, disposto ad officiare il rito a condizione che non entrassero in chiesa bandiere rosse. La madre Teresa, credente e praticante, soffrì molto per questo veto. Il rito funebre si tenne così all’estrema periferia del paese, in località S. Croce. Vi parteciparono i massimi esponenti del partito, locale e regionale, tra cui Umberto Terracini, che fece ritorno a Pisticci a distanza di pochi anni dopo la sua esperienza di deportato nella Colonia Confinaria Per onorare Giovanni Quinto, a Napoli gli venne intestata anche una sezione del Partito Comunista Italiano, nei pressi del porto.
Prof. Giuseppe Coniglio
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